“Undici metri”, documentario-verità su Ago Di Bartolomei

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    Diretto da Francesco Del Grosso – autore del pluripremiato Negli occhi – il documentario racconta l’irresistibile ascesa e la vertiginosa caduta della bandiera della Romacalcistica degli anni Ottanta, morto suicida nel 1994. Lo sguardo della famiglia e tante testimonianze inedite per un documentario “emotivo”, che sbarcherà in anteprima in un grande festivalinternazionale, sul calciatore che non sbagliò mai un rigore, ma fu tragicamente sconfitto dalla vita

    La lettera del figlio: Quel colpo di pistola 17 anni fa

    Il film L’uomo in più di Paolo Sorrentino. Le canzoni La leva calcistica della classe ’68Tradimento e perdono di Antonello Venditti. Il libroL’ultima partita di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno. L’ascesa irresistibile e la vertiginosa caduta di Agostino Di Bartolomei, bandiera della Roma calcistica degli anni Ottanta – quelli gloriosi dello scudetto – hanno ispirato registi, cantanti, scrittori e dato materiale per tante trasmissioni televisive. Ma sono ancora troppi i punti oscuri della parabola umana e sportiva di Ago, e tante le ombre, le omissioni, le incertezze su ciò che davvero lo indusse a spararsi un colpo di pistola al cuore il 30 maggio 1994, a dieci anni esatti dalla sconfitta della Roma col Liverpool in Champion’s League. Adesso ci pensa il cinema a colmare questo vuoto, con il documentario biografico ed “emotivo” firmato da Francesco Del Grosso – già apprezzato autore del film su Vittorio Mezzogiorno Negli occhi – che arriverà in anteprima alla Mostra di Venezia o – ancora meglio dal punto di vista “geografico” – al Festival di Roma. Quarantacinque interviste, centoventi ore di girato (tra cui riprese nello stadio Olimpico vuoto), un’infinità di materiale di repertorio e soprattutto le voci della famiglia. Della moglie Marisa e dei figli Luca e Giammarco, che hanno seguito passo passo la realizzazione del film. Il regista ha raccontato in esclusiva a Paese Sera i retroscena di Undici metri, il film che promette di dire la parola definitiva sul calciatore che non sbagliò mai un rigore, ma fu tragicamente sconfitto dalla vita.

    Come è nata l’idea di questo film? Dopo aver raccontato un protagonista del cinema come Vittorio Mezzogiorno, perché è passato a un protagonista dello sport?
    Daniele Esposito, il produttore di Vega’s Project che aveva già prodotto Negli occhi, stava lavorando sul set diBenvenuti al Sud San Marco di Castellabate, il comune del Cilento dove Agostino Di Bartolomei ha vissuto i suoi ultimi anni e si è tolto la vita. Lì Daniele ha conosciuto per caso la moglie di Agostino, Marisa De Santis e poi mi ha proposto di fare un film sulla storia di Di Bartolomei con la collaborazione della moglie, pensando che fosse nelle mie corde. All’inizio ero scettico: non volevo fare un film solo per tifosi o esperti di calcio, e su Agostino erano state già fatte una puntata di Sfide e una di Mixer. Poi ho letto il libro L’ultima partita di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno e ho capito che dietro la storia di Agostino c’era la vita di una persona comune che ha toccato un apice professionale altissimo e poi, quando è caduto, è stato lasciato solo. Era una parabola esistenziale prima ancora che sportiva.

    E’ stata un’indagine approfondita. Ha scoperto qualcosa che non si sapeva?
    C’erano tanti aloni di mistero su questa storia, le convinzioni dell’opinione pubblica non coincidevano con alcuni fatti. Si è costruita una mitologia secondo cui Di Bartolomei aveva scelto apposta per suicidarsi il 30 maggio 1994, perché cadeva esattamente 10 anni dopo la sua più grande sconfitta. E che questo fosse un segnale per la Roma, la società che l’aveva abbandonato. Nell’immaginario comune Di Bartolomei si è suicidato in seguito alla depressione, ma quella era solo l’ultimo stadio di un percorso. E’ una persona che ha avuto le sue colpe, tra cui quella di non saper manifestare i propri sentimenti, di essere un eterno adolescente e quindi spesso di lanciare messaggi che non venivano capiti. Sicuramente si è sentito solo, ma la colpa non è, come si è detto, della famiglia che lo ha portato al Sud, lontano dalla sua Roma. Era stato isolato dal mondo del calcio, la Roma non lo aveva chiamato a fare il dirigente, né a fare l’allenatore o a lavorare nella scuola calcio, e i motivi di questa mancata chiamata si scopriranno nel mio documentario. In Undici metri metto in contrapposizione ciò che è scolpito nella memoria di tutti e le tante cose che sono state occultate o dimenticate.

    Come è strutturato il documentario? Ci sono ricostruzioni?
    Innanzitutto non è né un santino né un “coccodrillo”, ma offre una serie di letture e di strade possibili sul motivo per cui è arrivato a quel gesto. Ed è un documentario puro, senza ricostruzioni se non alcune di tipo metaforico, come quella in cui due bambini dell’età di Agostino quando ha cominciato a giocare a calcio sono messi nella stessa situazione, e con gli stessi movimenti, che lo hanno reso famoso: il calcio di rigore alla finale di Coppa Campioni. Per il resto c’è una prima parte calcistica e una seconda di inchiesta, nell’ambito di un film biografico vero e proprio. La famiglia ha partecipato al 100%, non chiuderò il montaggio del film se non con l’ok di Marisa e dei due figli suoi e di Agostino. D’altronde loro tre sono il filo conduttore di questo viaggio intimo ed emotivo. Tutta la parte relativa al suicidio è raccontata solo attraverso le loro voci, con Marisa che mi racconta ciò che ha visto e che ricorda, senza nemmeno un’immagine del funerale. La mia idea guida, comunque, è sempre stata quella di non infangare la memoria di Agostino. Undici metri è un road movie emozionale, un viaggio nei suoi luoghi, dalla parrocchia in cui ha cominciato a giocare a calcio a Tor Marancia, l’Oratorio del San Filippo Neri alla Garbatella e fino allo Stadio Olimpico, per arrivare poi a Milano, Salerno e Castellabate. Agostino era attaccatissimo alla sua città, quando lo mandarono al Milan lui non voleva andarci e ci fu una sommossa popolare. Aveva un rapporto viscerale con i romani: è stato il primo vero capitano romano e romanista prima di Totti.

    Quali e quante sono le testimonianze che compaiono nel film?
    In più mi hanno indicato molte delle persone da intervistare: ho parlato con persone che non erano mai state interpellate, dallo psicologo che l’ha seguito agli amici che l’hanno conosciuto nell’infanzia, e poi tanti protagonisti del calcio – da Tancredi a Conti, da Nela a Pruzzo, da Tassotti a Baresi – a giornalisti come Curzio Maltese, a Enrico Bendoni. Di Bartolomei, poi, era uno dei pochi calciatori professionisti ad aver studiato pur provenendo da una realtà popolare, e aveva importanti amicizie in Vaticano e in politica.

    Alla fine di questo viaggio, che idea si è fatto sui motivi del suo suicidio?
    Sono combattuto. La personalità di Di Bartolomei era complessa e ancora non so decidere se la data del suicidio fosse premeditata oppure solo una coincidenza. Ci sono degli elementi che fanno pensare che quel giorno sia successo qualcosa di particolare che l’ha portato al tragico gesto. In Undici metri offro agli spettatori tutti gli elementi per farsi un’idea da soli.

    fonte:Unicosettimanale – di lucio capo

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