di Gerardo Picilli da Comingsoon.
In tempi in cui sequel, remake e reboot nascondono spesso un’imbarazzante povertà di idee, è incoraggiante assistere al ritorno sullo schermo di una delle più celebri creature di casa Universal. Wolfman non è infatti una semplice riproposta della storia inventata da Curt Siodmack per L’uomo lupo di George Waggner (1941), ma ne è una rilettura moderna e spettacolare, contaminata da elementi che ne sottolineano il valore mitologico senza sminuirne il senso. La Universal, che sui Mostri cinematografici (Dracula, Frankenstein, La mummia, L’uomo invisibile, Il mostro della laguna nera) costruì la sua fortuna, li fece ben presto interagire tra di loro in crossover dalle trame elementari, che tuttavia mantenevano la dignità dei loro protagonisti. Nemmeno l’irruzione di Gianni e Pinotto in questo universo fantastico riuscì mai a ridicolizzarli. La più tragica è proprio la figura dell’Uomo Lupo che, vittima senza colpa di una condizione innaturale e condannato a un destino di dolore, desidera solamente la liberazione della morte.
Negli anni Cinquanta la Universal cedette i diritti di remake alla Hammer, che rilanciò le Creature in versioni fiammeggianti, rosso sangue, appassionate e sessualmente più esplicite. Anche se resta isolata, la figura di Lupo mannaro interpretata da Oliver Reed nel bellissimo L’implacabile condanna (1961) lascia tracce profonde nell’immaginario degli amanti del genere, le stesse che oggi riaffiorano in Wolfman – direttamente in alcune sequenze, ma soprattutto nel trucco e nella fisicità di Del Toro – grazie all’idea di sfruttare un patrimonio comune con amore e rispetto, senza però fare dello spettacolo una vittima della cinefilia.
Rifare oggi un film su questo tema senza tenere conto dei classici del genere, è impossibile. Ecco dunque le citazioni letterali de Il segreto del Tibet da parte del personaggio del padre, interpretato da un Anthony Hopkins divertito e in gran forma. Ed ecco riproposta la sequenza del caos scatenato dalla creatura in Times Square (da Un Lupo mannaro americano a Londra) ricreata con le carrozze. E ancora vediamo apparire il bastone d’argento con la testa di lupo usato da Claude Rains nel primo Uomo lupo per uccidere il figlio, dettagli e particolari che solo gli amanti del genere riconosceranno.
Ma Wolfman non è stato realizzato solo per la ristretta cricca dei nerd e geek da sempre amanti dei film di mostri: è un’opera di genere spettacolare, convenientemente violenta, godibile sia a un livello più semplice che per chi ama cogliere i molti temi disseminati nella storia: dal rapporto amletico tra il padre e Lawrence Talbot (non a caso nella finzione noto attore shakesperiano), alla tragedia di Edipo che sfocia qui in un orrore ancora più estremo. La psichiatria sperimentale e punitiva di fine Ottocento, i rapporti formali tra uomo e donna pronti a trasformarsi in amore al semplice sfiorarsi, l’oscurità che libera l’anima dannata nel carcere del corpo, la vendetta e la repressione sociale e sessuale… tutti temi alti, affrontati in un contesto dichiaratamente “basso”.
E’ assolutamente straordinario il trucco del mago del make up Rick Baker (sei volte premio Oscar, la prima per Un lupo mannaro americano a Londra), che parte dalla trasformazione operata da Jack Pierce su Lon Chaney Jr., contaminandola con quella ideata da Roy Ashton per Oliver Reed. Il make up si unisce all’effetto meccanico e a quello generato al computer quasi senza soluzione di continuità, in un amalgama che non prevale mai sull’attore e sulla credibilità del film. Un mix in perfetto equilibrio, dovuto anche alla sapienza con cui il regista Joe Johnston, ex effettista speciale, riesce a valorizzare questi elementi fondamentali (a lui va un plauso particolare per essere entrato nel film a uno stadio già avanzato, dopo l’abbandono di Mark Romanek per divergenze creative col protagonista e produttore). Benicio Del Toro è sempre riconoscibile sotto la maschera – tranne, ovviamente, nei campi lunghi e nelle scene di lotta – e porta tutta la sua passione e conoscenza del genere in un’interpretazione di grande intensità fisica.
Paradossalmente, l’unico difetto che ci sentiamo di rimproverare al film è quello di averci messo dentro troppe cose, una quantità di spunti e materiale che a volte restano appena accennati o relegati ai margini. Ma in fondo anche questo torna a vantaggio dello spettatore: in tanta abbondanza ognuno sceglierà l’elemento che preferisce. L’inserimento dell’ispettore Abberline (Hugo Weaving), il vero detective di polizia di Scotland Yard che indagò sui delitti di Jack lo squartatore, resta appena abbozzato, ma è un modo originale per riproporre l’idea di un crossover intelligente, che mette sullo stesso piano di irrealtà un personaggio vero, vissuto in un mondo abitato da mostri umani, e un’icona del fantastico creata dall’ingegno di uno sceneggiatore proveniente dalla vecchia Europa, che attinse alle leggende centenarie sulle creature mutaforma per il suo mostro cinematografico. Emily Blunt interpreta con convinzione la tragica e coraggiosa eroina che si fa, attivamente, strumento del destino: come la Rossana del Cyrano de Bergerac perde due volte l’amore (non è difficile immaginare quale sia, nel suo caso, quello vero). Girato in Inghilterra e a Praga, in splendide location, con gli impeccabili costumi di Milena Canonero, fotografato nei colori cupi presaghi dello scatenarsi di una tempesta dell’anima, montato dal grandissimo Walter Murch, Wolfman è un film sotto molti aspetti sorprendente, moderno e al tempo stesso vecchio stile come da tempo non avevamo il piacere di vedere al cinema.
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